Intervento di Paolo Ceruzzi, Associazione Ausilia – Ditelo “sui tetti”

Sappiamo che la desiderabilità dello Stato sociale dipende dal fatto che esso offre agli individui mezzi e risorse per sottrarsi alla vulnerabilità e ai rischi associati alle economie di mercato, istituendo una sfera in cui la logica del mercato stesso e del libero scambio non rappresentano lo scenario esclusivamente desiderabile.

Al welfare State va riconosciuto lo sforzo nel ricercare un equilibrio tra diversi valori e principi propri della tradizione pubblica delle società liberali e democratiche, dalla libertà all’eguaglianza, dalla solidarietà all’efficienza.

Quindi è lo Stato, in primis, ad avere il diritto, dovere, di garantire forme di welfare pubblico attraverso strumenti di tutela sociale (si pensi ad esempio alle pensioni, alla salute, all’educazione scolastica, alla sanità) ed ogni Stato decide il dosaggio di welfare State che intende erogare, ovviamente attivando la leva fiscale.

Quando questo atteggiamento cede il passo ai datori di lavoro, è però doveroso che lo Stato incentivi in modo concreto anche il welfare aziendale, “in aggiunta al welfare pubblico”, come strumento in grado di meglio dosare il tipo e il quantum di welfare erogabile, onde massimizzare il benessere dei lavoratori e delle loro famiglie.

Non sono il solo a credere che le migliori realtà imprenditoriali mettono le persone al centro della loro strategia e investono sul loro benessere. Esse si dotano di piani mirati a migliorare la condizione psicofisica delle persone anche attraverso importanti azioni di welfare e ultimamente di smart working.

Occorre assicurare ai lavoratori un luogo di lavoro confortevole e sicuro, una remunerazione adeguata, un welfare aziendale congruo, una elasticità organizzativa dell’orario di lavoro, una formazione professionalizzante, una chiarezza sulla direzione strategica.

Puntare sul benessere delle persone, a partire dai giovani, è il miglior investimento che possa fare oggi una azienda ed il ritorno economico, e non solo, è ormai dimostrato dalle ricerche di questi anni.

Doveroso riflettere sul monito di Papa Francesco che invita ad una riorganizzazione aziendale che superi gli oltraggi dell’egoismo e dell’individualismo che hanno forgiato una “globalizzazione dell’indifferenza” che non permette di dare un volto all’economia.

La scelta migliore va dunque di pari passo con la scelta etica, garante e rispettosa anche dei bisogni e degli interessi della persona.

Emergerebbe così un nuovo modello economico e sostenibile nel lungo periodo basato sulla persona: un modello che migliora l’equilibrio tra vita privata e lavoro al fine di favorire la famiglia ed il benessere sociale, ambientale, economico del lavoratore e dell’azienda, così da mostrare come la visione cattolica e aziendale sono spesso allineate anche se sovente appaiono distanti.

Ma questo ruolo “sociale” dell’imprenditore come si declina in pratica?

Quali sono gli strumenti che ha a disposizione?

A tal riguardo, la letteratura scientifica ci soccorre e sottopone alla nostra attenzione due sottogruppi di welfare aziendale:

1)         le misure di conciliazione tra vita e lavoro (c.d. work life balance);

2)         i fringe benefit.

Il primo sottogruppo di welfare aziendale può sembrare di esclusiva pertinenza del datore di lavoro che, nel favorire i propri dipendenti, pone in atto misure che permettano di bilanciare le esigenze di vita con quelle lavorative (es. smart working, orari flessibili, asili nido aziendali, ecc.) Queste azioni avrebbero in primo luogo il vantaggio di valorizzare il “capitale umano” contemplando una prestazione lavorativa meno opprimente, migliorando conseguentemente anche la produttività oltre che fidelizzare le risorse umane disponibili, si ricordi, a tal proposito, la figura di Adriano Olivetti che fu il precursore di tale filosofia tra gli imprenditori italiani.

Ma anche lo Stato può sicuramente dare un suo sostanziale apporto per favorire ed incentivare anche quest’area del welfare aziendale, principalmente attraverso la leva economica.

In realtà lo aveva già fatto (in modo anche promettente), qualche anno, fa quando mediante un decreto del 2017 stanziò, ma solo per gli anni 2017 e 2018, più di 50 mln di euro all’anno, sottoforma di incentivi erogati dall’Inps, a favore di quegli imprenditori che si erano dimostrati attenti a concedere forme di work life balance ai propri lavoratori. Purtroppo negli anni successivi il progetto non è stato più rifinanziato.

Per la seconda forma di welfare aziendale, quella legata ai fringe benefit, cosa può fare in concreto lo Stato?

Beh, potrebbe in primo luogo “stabilizzare” la quota dei benefit c.d. sottosoglia, fissandola almeno a € 516.46, come era stata prevista per il 2020 e 2021.

Oggi, nonostante fosse pronto un disegno di legge da inserire nella Legge di Bilancio per porre in essere la predetta stabilizzazione a 516,46 euro, non se n’è fatto nulla e dal 2022 siamo tornati al limite di 258,23, valore che risale a 25 anni fa (!) e che non è più adeguato stante l’attuale costo della vita, a fungere da parametro di “modicità”.

L’utilizzo di fringe benefits con un valore “sottosoglia” peraltro può essere visto come primo approccio al welfare aziendale da parte dell’imprenditore neofita, visto che se il valore del bene o servizio offerto resta al di sotto di tale limite può contemplare qualunque ambito merceologico, rendendo meno impattante l’appeal che il denaro, bene fungibile per definizione, ha nei confronti dei lavoratori.

Sempre in tema di fringe benefit, ricordo che il welfare aziendale è l’unico vero ed efficace strumento per ridurre il famigerato “cuneo” fiscale, cioè il divario che esiste tra la retribuzione lorda e quello che resta nelle tasche del lavoratore.

Ricordo che se è vero che su tali somme o valori (e più in generale sui fringe benefit erogati in un piano di welfare aziendale) il lavoratore non paga contributi e imposte e l’azienda risparmia i contributi a suo carico, allo Stato il mancato introito rientra comunque, quantomeno in parte, sottoforma di imposte indirette (IVA) collegate al bene o servizio che al lavoratore viene assegnato, per cui il gettito viene comunque in gran parte mantenuto.

Inoltre, sempre in tema di ciò che può fare lo Stato per favorire il welfare aziendale, sarebbe auspicabile che le prassi (Agenzia Entrate) non confliggessero tra loro con interpretazioni discordanti. Un esempio: la DRE Lombardia aveva permesso nel 2017 la possibilità di predisporre un piano di welfare aziendale “premiale” individuale (basato sul merito), mentre con la Risoluzione n.55/2020, l’Agenzia delle Entrate l’ha poi negata (peraltro senza citare il precedente orientamento della DRE), quando molti piani di welfare aziendale erano già stati predisposti sulla base di indici e parametri individuali. Si tenga conto che il concetto di “premialità” non è detto che debba intendersi collegato a parametri produttivi in senso stretto.

Inoltre, nell’art.51 del TUIR esistevano (fino al 2008) altri due importanti strumenti di welfare aziendale: le “erogazioni liberali” (esentati da imposte e contributi fino a € 258,23) ed i “sussidi occasionali” (ad personam), anch’essi totalmente esenti, che avevano una funzione importante per sostenere quei lavoratori che si fossero trovati in una situazione di particolare difficoltà (es. lutto).

Dal 2008 i due istituti sono stati abrogati ed invece meriterebbero un ripristino, perlomeno per quanto riguarda i sussidi. Basti citare come esempio un caso capitato ad un’azienda piemontese, per farci capire che bisogna ritornare sui nostri passi: un lavoratore ucraino di 50 anni ha chiesto all’azienda datrice di lavoro di avere un periodo di aspettativa per tornare a combattere nel suo paese insieme ai figli, che sono già sul fronte. L’azienda ha pensato di erogargli un sussidio di 5000 euro. Orbene, questa erogazione, incredibilmente, non trova nell’ordinamento attuale una collocazione giuridica che possa esentare tali somme da imposte e da contributi.

Se è vero dunque che i modelli di business sono dunque da costruire a partire dalla valorizzazione e dal coinvolgimento virtuoso delle risorse umane, affinché possano essere raggiunte al meglio le finalità aziendali, non dovrebbe essere difficile convincere gli imprenditori e lo Stato ad essere protagonisti e a varare un nuovo sistema economico che realizzi le loro ambizioni e allo stesso tempo strizzi l’occhio al bene comune, anche costituendo un welfare bipartisan riconducibile ad una partnership organizzata e suddivisa tra Stato ed azienda dove chi indice è il governante legislatore.

Desidero concludere questo mio breve intervento con le parole di tre illuminati interpreti della valorizzazione del capitale umano:

La valorizzazione delle competenze professionali deve quindi seguire alla valorizzazione del genere umano, verso “(…) un mondo nuovo, che rispetta le persone, la natura e crede in una nuova economia basata non solo sul profitto di pochi ma sul benessere di tutti” (dal discorso di auguri di fine anno di David Sassoli, Presidente del Parlamento UE, 23 dicembre 2021),  nello stesso tempo evitando “(…) di essere soltanto degli estranei che collaborano, dei concorrenti che cercando di posizionarsi meglio o, peggio ancora, lì dove si creano rapporti, essi sembrano prendere più la piega della complicità per interessi personali, dimenticando la causa comune che ci tiene insieme” (Papa Francesco).

Il lavoro è un bene dell’uomo – è un bene della sua umanità –, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza sé stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, «diventa più uomo». … L’uomo si sviluppa mediante l’amore per il lavoro. Questo carattere del lavoro umano, del tutto positivo, creativo, educativo e meritorio, deve costituire il fondamento delle valutazioni e delle decisioni che oggi si prendono…” (Papa Giovanni Paolo II, 1981).